Diamo la parola ad Antonella Nardone co-fondatrice de Il filo del Sé. Esiste la possibilità di guardare ai conflitti lasciando andare le cause e i meccanismi mentali che li generano per sviluppare le qualità del cuore? E’ ciò che la teoria e la pratica della Mindfulness Dharma oriented ci invitano a riportare nella vita quotidiana.
E’ una possibilità per tutti coloro che sono interessati a migliorare la qualità delle loro relazioni.
Quando pensiamo al conflitto ci riferiamo al fenomeno che si verifica quando due parti contrastanti si incontrano generando una tensione opposta. Sul piano psicologico sono i conflitti fra parti antagoniste di sé e sono i conflitti interpersonali.
Come possiamo affrontarli? Ci sono svariati modi elaborati da diverse correnti di pensiero: quello che esploreremo in questa sede è l’applicazione dell’amorevole gentilezza, quale attitudine di profonda accettazione della realtà. L’amorevole gentilezza, insieme alla compassione, alla gioia compartecipe e all’equanimità, è una delle quattro qualità, dette incommensurabili, centrali nella psicologia buddhista e nella Mindfulness.
Cambiare punto di vista
Di fronte a un conflitto, nella maggior parte dei casi, siamo istintivamente portati ad individuarne la causa nell’altro o nelle circostanze avverse: ciò non è sbagliato, ma solo parziale. Infatti, muovendoci in un contesto squisitamente relazionale, non può non esserci anche una nostra parte nel problema del conflitto. In particolare, il nostro ruolo può essere visto attraverso due punti di vista: quello della responsabilità e quello del modo in cui viviamo il conflitto stesso.
È di questo secondo aspetto che ora ci occupiamo: ci appare risolutivo non tanto del problema oggettivo, ma piuttosto nella riduzione del disagio psichico che esso può generare. Per chi è interessato ad accrescere la propria consapevolezza, i conflitti, se utilizzati in questo senso, possono diventare una grande opportunità, come contropartita della vita alle prove cui ci sottopone.
Mettiamo il caso in cui il conflitto non sia stato generato da noi e ci appaia irrisolvibile. Focalizziamoci sul nostro sentire e quindi sul modo in cui lo viviamo, esplorando la possibilità di abbandonare l’aspettativa di risolverlo.
Proviamo ad analizzare cosa accade dentro di noi. Ci accorgeremo di sentire una tensione forte, poco sostenibile che chiede prepotentemente di essere utilizzata per risolvere il problema che l’ha generata. Ora, questa tensione è sostenuta da un surplus di energia che è prodotta dall’attrito che si forma fra le due parti che confliggono (che siano due parti interne o parti di una relazione)
L’uso dell’attrito
In natura, quando due parti si scontrano creano attrito, generando un’energia tanto più forte quanto più intenso e insolubile è il conflitto che ne è la causa. Questa energia sarà comunque fonte di un movimento interno o esterno: sta al soggetto scegliere quale direzione dargli. Se la mente è fortemente condizionata dai meccanismi automatici di difesa dell’Io-Mio, l’energia dell’attrito andrà a sostenere reazioni automatiche; se invece la mente è più libera, il soggetto potrà scegliere comportamenti più virtuosi.
Per esempio, un attacco verbale può provocare un pugno e scatenare una rissa oppure risolversi in un sorriso derivante da un processo di consapevolezza, al centro del quale ci sono contemporaneamente il sentire il proprio disagio, la comprensione delle ragioni dell’altro e l’accettazione aperta del conflitto in atto. Nella Mindfulness questo processo si chiama amorevole gentilezza.
L’amorevole gentilezza per la liberazione della mente
L’amorevole gentilezza è una profonda accettazione di noi stessi, dell’altro e della sofferenza di entrambi; è non dare spazio a quella parte di noi che vorrebbe vendicarsi, rispondere oppure fuggire, essere consolata, cambiare la situazione: l’immagine della mente amorevole è quella di qualcuno che nel massimo del dolore sappia aprire il cuore ad un sorriso. E’ una trasformazione radicale del nostro modo di vivere la relazione con se stessi e con gli altri. E’ una profonda crescita interiore verso la saggezza. Non è facile attivare l’amorevole gentilezza, serve molta energia; ecco allora che le situazioni di conflitto ci vengono in soccorso fornendoci un prezioso surplus di energia che può essere utilizzato per scardinare i meccanismi della mente e quindi per liberarla: ciò che non può avvenire nella comfort zone, con una reazione impulsiva, può invece avvenire nel pieno della tensione, se sapremo utilizzare l’energia derivante dall’attrito.
Pensandoci bene, seppur inconsapevolmente, siamo proprio noi stessi a costruirci situazioni difficili, non per stare più tranquilli, ma per un impulso dell’anima a liberarsi dai condizionamenti dell’attaccamento e dell’avversione. Basti osservare che, di fronte a momenti difficili della vita, alcune persone ne sono devastate, altre rigenerate.
La domanda, in definitiva, è: come fare a trasformare l’energia dell’attrito derivante dal conflitto per liberarci anziché aumentare la sofferenza di quella parte di noi che vorrebbe che quel conflitto non ci fosse?
Il processo dell’amorevole gentilezza
La pratica dell’amorevole gentilezza nella relazione conflittuale non è per nulla facile poiché sono in gioco emozioni come la rabbia, la paura o la frustrazione, cariche di energia reattiva, dunque poco gestibile. Tuttavia, se prima di far scattare la reazione automatica riusciamo a prenderci del tempo e se dietro al conflitto c’è una reale intenzione di incontrare l’altro, possiamo attivare quelle azioni introspettive che potranno attivare e sostenere il processo trasformativo.
Riportare la mente alla presenza
In presenza di un conflitto è facile che la mente divaghi per elencare ossessivamente e sostenere tutte le nostre ragioni: è un enorme e inutile dispendio di energia che ci impedisce di essere in contatto con noi stessi e con quello che proviamo.
L’indagine
È importante dunque iniziare un processo introspettivo di indagine ritrovando la presenza, concentrandoci qualche minuto sul respiro. Se siamo in contatto con noi stessi possiamo provare a sentire e riconoscere l’emozione che ci abita: “rabbia… paura… di cosa…? cosa sto difendendo…? da cosa mi sento minacciata…?”
L’accettazione di sé stessi
Se quello che proviamo non ci piace è bene evitare di rimanere intrappolati in un giudizio negativo sulle nostre stesse emozioni che porterebbe inevitabilmente ad una fuga o ad agire aggressività.
L’osservazione
Possiamo ora rivolgere lo sguardo verso l’altro per percepire sul piano sottile l’emozione che lo abita e le sue ragioni, ponendo le medesime domande: “rabbia… paura… di cosa.. ? da cosa si sta difendendo…? da cosa si sente minacciato…?”
L’accettazione dell’altro
Prendere atto, senza giudicare, ciò che vediamo nell’altro.
La motivazione
A questo punto dobbiamo prendere una decisione: cosa vogliamo realmente che accada? Dobbiamo scegliere se cercare la pacificazione, la fuga o il mantenere acceso il conflitto. Ad aiutarci a prendere questa decisione c’è solo la direzione etica che guida il ricercatore sincero, senza la quale questo discorso rischierebbe di essere manipolatorio.
L’obiettivo non è “cosa mi conviene di più per sostenere l’IO-MIO”, ma è “cosa è giusto fare per servire la Verità e la Benevolenza?”
L’apertura
Se decidiamo di perseguire la pacificazion, dobbiamo esprimere l’azione più difficile: aprirci e renderci vulnerabili, rinunciare a difendere noi stessi per entrare in empatia con l’altro. Per fare questo è necessaria una forza interiore, un perno che possa sostenerci; se la nostra identità fosse troppo fragile, l’azione di apertura, che è anche una sorta di resa, sarebbe insostenibile. Tuttavia piccoli e graduali tentativi possono essere fatti da tutti, per saggiare fino a che punto possiamo spingerci.
L’espressione
E’ l’atto finale che mettiamo in campo, per rivolgerci all’altro consapevolmente, con amorevole gentilezza, allineando la nostra motivazione con le parole che pronunceremo e le azioni che compiremo.
Non è detto che questo processo sani il conflitto, anche se ha buone probabilità di farlo, ma avrebbe sicuramente un grande vantaggio: il conflitto, invece di produrre il suo potenziale distruttivo, aiuterebbe la nostra crescita interiore verso la liberazione dai condizionamenti della mente e sarebbe un passo verso l’eliminazione della sofferenza “non necessaria” in noi stessi e negli altri.
Con il termine Brahmavihāra nel Buddhismo si indicano quattro qualità o stati mentali altamente desiderabili, detti i quattro incommensurabili o le quattro forme del vero amore.
Letteralmente il termine significa “dimore divine”: nella misura in cui riusciamo a generare in noi questi stati mentali e a stabilirci in essi, dimoriamo presso Dio, siamo come in paradiso, non dopo la morte in un’ipotetica vita futura, ma proprio qui e ora mentre viviamo la nostra vita quotidiana. Come tutti gli stati mentali, anche le quattro dimore divine dipendono in ultima analisi da noi e non dalle circostanze. Questo significa che se la nostra mente è sufficientemente allenata, possiamo imparare a generare in noi questi stati indipendentemente dalle circostanze e a portarli proprio nelle situazioni difficili della nostra vita.
Questi quattro stati mentali sono: Mettā, Muditā, Karunā e Upekkhā.
Mettā è la gentilezza amorevole, l’amore e la benevolenza senza discriminazione che si irradia su tutti e che desidera il bene e la felicità dell’altra persona senza chiedere nulla in cambio.
Muditā è la gioia compartecipe, la gioia altruistica, la capacità di partecipare alla gioia altrui, l’opposto dell’invidia. Quando accediamo a questo stato mentale realizziamo che la felicità delle persone intorno a noi è la nostra stessa felicità: come posso essere felice se intorno a me ci sono persone infelici? Muditā è offrire gioia all’altra persona e considerare la gioia altrui come la propria.
Karunā è la compassione. Compassione non è commiserare l’altro, compatirlo, averne pietà – tutti atteggiamenti che sottendono un giudizio, che tendono a mettere l’altro in una posizione di inferiorità rispetto a noi – ma è la capacità di vedere e comprendere la sofferenza dell’altro, di partecipare al dolore altrui. Karunā, che come tutti i Brahmavihāra è una forma di amore, è la capacità di riconoscere la sofferenza nelle persone che amiamo e la capacità e il desiderio di alleviare questa sofferenza. Questo ci porta ad aprirci all’altro, a sentire la connessione con lui, a renderci conto che la sofferenza accomuna tutti gli uomini, al di là della facciata che mostrano. Quando dimoriamo nell’odio non facciamo altro che distruggere noi stessi.
Upekkhā è l’equanimità. Il sole è equanime, risplende su tutti senza distinzioni. La terra è equanime: è in grado di ricevere e trasformare sia sostanze pure che sostanze contaminate. Equanimità è lasciare andare attaccamenti, preferenze e avversioni, è la capacità di osservare fatti, persone, situazioni ma anche pensieri, emozioni e sensazioni accogliendoli per quello che sono, senza giudizio. Questo atteggiamento genera una mente di pace, quieta e spaziosa e in questo spazio possiamo essere non reattivi e quindi liberi. Equanimità non è indifferenza, è un guardare dall’alto che permette di cogliere le distinzioni, di discernere con visione e intelligenza senza farsi guidare da attaccamenti e avversioni.
Antonella Nardone
Insegnante e formatore di Yoga-Mindfulness, direttore didattico de “Il filo del Sé”, associazione di ricerca per lo sviluppo della consapevolezza, che ha fondato nel 2008 con sede alla periferia Nord di Roma. Mindfulness counselor, svolge da anni la sua attività, volta alla integrazione dello Yoga con la psicologia Buddhista e la Meditazione di Consapevolezza e la Mindfulness Dharma Oriented; in particolare, approfondisce le pratiche tradizionali che agiscono sul sistema energetico per sviluppare la mente meditativa.
www.ilfilodelse.it